Gli esterni
Di Ardian Vehbiu
Con il suo intervento Le fissazioni della tarda dittatura, Elidor Mëhilli ha aperto un nuovo percorso – per me molto stimolante – nel dibattito sulla “fenomenologia” dell’isolamento sotto la dittatura, il tutto ricordandomi che l’isolamento dei visitatori stranieri in Albania in quegli anni non era semplicemente un effetto della xenofobia né della paranoia del regime.
In albanese colloquiale, gli stranieri sono anche chiamati “esterni”; un aggettivo che segna esplicitamente lungo l’asse interno-esterno, topologicamente, riferendosi allo spazio – reale o immaginario – della comunità. L’outsider è colui che viene da fuori, che non è nostro, il che spiega anche le differenze di comportamento, abbigliamento, gesticolazione e linguaggio.
Ma questo concetto, di essere esterno, trascende i confini delle differenze etniche o di cittadinanza e dipende, in ultima analisi, dalla percezione della comunità e dai criteri comunitari che determinano chi è nostro e chi viene da fuori o appartiene ad un altrove geografico.
In questo caso, uno status assimilabile allo straniero viene applicato anche alla persona esclusa dalla comunità per ragioni politiche e ideologiche; una categoria che includerebbe i declassati, gli ex detenuti, i parenti dei “nemici” e tutti coloro che il regime considerava suoi oppositori e che gli altri cittadini evitavano per non finire nel mirino della polizia segreta (Sigurimi).
Ricordo un giorno d’inverno dei primi anni Ottanta, quando incontrai per strada il figlio di un alto esponente del partito, ma che era stato appena dichiarato “nemico del popolo”; e che il regime aveva decretato di mandarlo in esilio. Molti di coloro che, fino a poco tempo prima, facevano a gara per salutarlo, ora si voltavano dall’altra parte – per evitarlo.
Nel giro di una notte, quella persona era diventata invisibile. E lui stesso lo capiva bene e sfuggiva a qualsiasi tentativo di rivolgersi ai conoscenti.
Nell’antica Atene era nota la pratica politica (e legale) dell’ostracismo: un cittadino veniva espulso dalla città per diversi anni. Spettava ai cittadini deliberare, tramite votazione, chi sarebbe dovuto essere esiliato. Il cittadino colpito veniva allontanato fisicamente dalla comunità cittadina, diventando un estraneo.
Questa pratica di ostracismo è simile all’internamento; poiché in linea di principio è una sorta di deportazione, nonostante i regimi totalitari l’abbiano trasformato in una sorta di punizione analoga alla reclusione.
Sia l’ostracismo che la deportazione e l’internamento poggiano sull’idea che il passaggio obbligatorio da dentro a fuori di uno spazio sociale più o meno determinato, segna una perdita di status che può essere usata come punizione per infrazioni, colpe e reati vari.
Il significato dello spazio esterno è delineato negativamente in rapporto allo spazio interno.
I deportati di Tirana, sia che si trattasse di persone rientrate dopo aver scontato la pena detentiva o di familiari di incarcerati, erano tutti condannati al sospetto; l’orientamento generale nei loro confronti era di tenerli a distanza, a partire dall’evitare di avere contatti diretti.
Un comunista, che avesse avuto all’interno della cerchia familiare un parente condannato come kulak, o per qualche altro motivo politico, doveva specificare – in “biografia” – che non aveva più contatti con lui.
Per non parlare dei casi noti in cui le mogli divorziavano dai mariti, e viceversa, dopo che uno dei due cadeva in disgrazia politicamente.
Il regime è intervenuto in questi rapporti sociali con mano pesante, costringendo molte famiglie a ridisegnare al proprio interno i confini tra “dentro” e “fuori”.
In tutti questi esempi, la rottura volontaria dei legami, dei contatti, delle relazioni era una forma di esclusione, nel senso etimologico della parola. E l’individuo problematico, ancor prima di essere condannato, si vedeva fuori della comunità.
Salutare per strada una persona così, già politicamente stigmatizzata, veniva talvolta vissuto come sfida alla dittatura.
(“Ho visto qualcuno per strada e l’ho salutato! È già uscito di prigione. Hai fatto bene a salutarlo… Ormai ha già scontato la sua pena.”)
Il famoso romanzo di China Miéville, The City and The City, da cui hanno tratto anche una serie televisiva, illustra eloquentemente questo tipo di isolamento attraverso l’invisibilità.
Gli eventi del romanzo si svolgono in una città che ne include contemporaneamente due; ai cittadini di ciascuna viene richiesto di disvedere l’altro (il cittadino dell’altra città) e alla fine imparano a non vederlo realmente.
Mentre leggevo quel romanzo, mi chiedevo se anche la Tirana degli anni totalitari avesse una tale sovrapposizione, dove ciascuna delle parti aveva imparato a non distinguere l’altra.
L’ostracismo comunitario, ovvero l’isolamento dell’elemento “indesiderato” dalla comunità, realizzava questo tipo di invisibilità – allorquando ti abituavi inizialmente a non rivolgere la parola a qualcuno per strada, e dopo a non riconoscerlo più, rendendolo invisibile.
Il regime ha lavorato alacremente per instillare nei suoi cittadini il riflesso perverso di pensare che coloro che commettevano errori politici e venivano dichiarati nemici, automaticamente non appartenevano più alla comunità. Poteva accadere pertanto, vedere uno dei tuoi vicini salire su un camion per essere internato; e non accorgertene nemmeno, perché la sventura si era già spostata oltre il tuo orizzonte comunitario.
Era importante, per il governo, che tu cittadino, da un lato vivessi con l’idea della lotta di classe come realtà quotidiana e totalizzante, ma dall’altro, non percepissi più il “nemico” come l’uomo che potevi incrociare per strada o che poteva sederti accanto al cinema.
Ero in terza media quando il padre di una mia compagna di classe, noto drammaturgo, ma ormai additato come affiliato del gruppo Paçrami-Lubonja, fu internato. Pur essendo ancora minorenne, ricordo una specie di gelo, una sorta di freddezza che iniziò a circondare quella ragazza. Si sarebbe detto che le stavano togliendo l’ossigeno a poco a poco.
Dopo, sarà stato il secondo anno di liceo, fu arrestato il padre di un’altra ragazza, di una classe parallela, uno storico. Era sempre stata una ragazza molto in gamba, la sua voce e le sue risate risuonavano sempre nei corridoi della scuola. Poi qualcosa si ruppe. I suoi amici non l’abbandonarono, anzi, cominciarono persino a solidarizzare apertamente con lei, sfidando il potere – tale era il ginnasio Sami Frashëri – ma lei stessa iniziò a perdere i colori, fino a diventare invisibile.
Una sorta di autoisolamento, forse anche un atto di orgoglio. Un vecchio amico di famiglia, impegnato di nascosto nel fronte antiregime a Tirana, in seguito si mise a “parlare” e fu condannato al carcere; dopo aver scontato la pena, un giorno si presentò come venditore di sigarette ambulante, nella strada molto vicino a casa nostra. Ricordavo di quando veniva a trovarci, prima di essere condannato; ma ora le circostanze erano cambiate. E lui, quando incrociava per strada i miei genitori, non rivolgeva loro la parola. Forse aveva anche imparato a disvederli. Non voleva. La Tirana totalitaria lo aveva spodestato, ma anche lui aveva spodestato la Tirana totalitaria. L’isolamento era reciproco, reciproco quanto l’ostracismo. Andava in bicicletta e solo Dio sapeva cosa vedeva attraverso i suoi occhiali dalla lenti spesse, anche se certamente non l’uomo nuovo socialista.
Tutto questo sistema di regole assurde all’interno della comunità, di ordini su con chi si sarebbe dovuto parlare e con chi no, con chi si poteva bere il caffè e con chi no, chi della famiglia si sarebbe dovuto invitare a nozze e chi no; che definiva il confine tra dentro e fuori lo spazio sociale dell’individuo nella comunità, era anche un riflesso della volontà totalitaria di riformulare le regole della convivenza, o la manifestazione del regime nel Super-io civico. Sapere chi doveva essere isolato e in che modo, chi era visibile e chi invisibile e soprattutto chi era diventato invisibile, faceva parte della competenza sociale sotto il totalitarismo.