I tre isolamenti
di Ardian Vehbiu
Era il dicembre 1981 quando lo storico italiano Michele Brondino fu nominato addetto culturale dell’Ambasciata italiana a Tirana, missione che svolse per due anni. La sua esperienza e quella della sua famiglia a Tirana è narrata nel libro Stranieri nell’Albania rossa, recentemente pubblicato da Besa Editrice, scritto dallo stesso Brondino e sua moglie, Yvonne Fracassetti. Più che un libro di memorie, l’opera si presenta come un saggio antropologico, con forti note personali, sulle difficoltà di una famiglia italiana a comunicare con la gente del posto nella capitale dell’Albania di quegli anni.
Del libro si è discusso nella serata del 3 giugno 2021, in un incontro online organizzato dall’Associazione culturale Occhio Blu, moderato dall’ambasciatore Mario Bova, condiviso anche in diretta Facebook.
Per quel che mi riguarda, l’esperienza di un italiano venuto a vivere in Albania all’inizio degli anni ’80 coincide, in più di un aspetto, con la mia rievocazione di cittadino dell’Albania di allora, dell’Occidente e specialmente dell’Italia, di cui ho scritto nel libro Cose portate dal mare (pubblicato sempre da Besa Muci). Come mi hanno confermato gli autori del libro, Brondino & Fracassetti, le due esperienze sono speculari. Mentre io vivevo l’Italia senza poterci andare fisicamente, i due autori di cui sopra erano fisicamente presenti in Albania, ma non potevano vivere l’Albania vera, genuina, umana.
Nel libro si parla molto di isolamento, e proprio sull’isolamento mi sono soffermato nel mio intervento, con un ragionamento che ora desidero condividere con voi. L’isolamento dell’Albania dal mondo, praticamente totale dopo la rottura con la Cina post-Mao alla fine degli anni ’70, è universalmente riconosciuto – non per niente i turisti del tempo consideravano questo paese come uno dei più isolati del pianeta, dove per gli stranieri era estremamente difficile entrare e per i nativi altrettanto arduo uscire; per non parlare del letargo e dell’intorpidimento degli scambi culturali, artistici o semplicemente umani con il mondo oltre i confini.
Il libro parla anche dell’isolamento che veniva imposto agli stranieri nell’Albania totalitaria, fino a rendere loro impossibile comunicare liberamente con la gente del posto, poiché questi ultimi evitavano i contatti spontanei e si tenevano alla larga dagli stranieri, per paura –giustificata – di avere problemi con la Sigurimi. Il lettore di oggi, soprattutto albanese, sarà sorpreso di apprendere, dal libro, che gli unici contatti umani, al di là di quelli protocollari con funzionari governativi, la coppia Brondino & Fracassetti li avrebbe avuti con una donna che li aiutava nelle faccende di casa, Shpresa, che era la loro unica amica, la loro unica fonte di relazione con le esperienze albanesi di vita reale, ma anche una puntuale informatrice di tutto ciò che accadeva in famiglia. Questa grottesca interfaccia di una famiglia di diplomatici occidentali con l’Albania degli anni ’80 meriterebbe un film a parte.
Quello che manca nei contatti della famiglia italiana è il cittadino di Tirana che avrebbe beneficiato pure di più di quei contatti: un professore universitario, un intellettuale, uno scrittore, un artista, un giornalista, uno studente. Non c’era possibilità per l’addetto culturale italiano a Tirana di entrare in contatto – tanto per dire – con qualcuno come me, che in quegli anni stavo terminando gli studi all’Università, alla Facoltà di Storia e Filologia, a due passi soltanto dall’Ambasciata d’Italia.
Questo perché io non avrei nemmeno preso in considerazione di intrattenermi con un diplomatico italiano per strada, perché avrei inutilmente rischiato; e perché lo stato albanese non avrebbe consentito tali contatti, al di fuori del protocollo ufficiale; e soprattutto, perché tutti i cittadini come me, a quel tempo, avevano imparato ad isolarsi dalla vita pubblica, ad avvolgersi in una speciale crisalide, a vivere nel loro mondo immaginario, e così conservare testa e cervello, di fronte al terrore totalitario e al rischio più che reale di alienazione.
E fu questo il terzo isolamento, del quale si è parlato meno; ovvero il ritiro nel privato di tutti coloro che non si ritrovavano (più) nel regime di Hoxha; e che si difendevano con lo stordimento dell’oppio della RAI italiana, in radio e in tv; un isolamento privato, un ritiro dalla scena, una sorta di intossicazione terapeutica, con molecole di un’altra cultura, che era l’unica che ci dava speranza, e garanzia di salvaguardia della salute mentale, e la promessa di conservare la nostra integrità. Paradossalmente, i produttori della RAI non erano nemmeno consapevoli di questo effetto cruciale dei loro programmi, su una parte considerevole dei cittadini albanesi, e specialmente sulle élite culturali di Tirana. Va notato, quindi, che questo consumo di realtà veicolata dalla RAI non veniva fatto per l’altro, ma per se stessi; anche se poi serviva come una specie di rito di iniziazione, sufficiente a creare solidarietà e persino complicità. È stato un isolamento, il nostro, indotto non tanto dalla necessità di segretezza quanto di elusione; essendo la cultura che consumavamo – non importa quanto provvisoria, superficiale, deviante, distante dai valori culturali con cui si identificavano gli italiani come noi, l’antidoto universale al veleno che ci gettava quotidianamente nel cervello il totalitarismo.
Era difficile per noi, all’epoca, mettere insieme l’Italia che ci arrivava attraverso le onde radiofoniche e televisive, e tramite gli italiani – quei pochi italiani – che visitavano l’Albania. La prima era nostra in un modo che i secondi non potevano esserlo; perché la prima nessuno ce la poteva toccare.